“In ultima analisi, noi contiamo qualcosa solo in virtù dell’essenza che incarniamo, e se non la realizziamo, la vita è sprecata”
C.G. Jung
Questa “essenza”, così come raccontata da Carl Gustav Jung, è il daimon: la vocazione dell’anima, un’immagine primaria che pulsa nell’essere umano richiamandolo ai suoi talenti e alla sua chiamata interiore.
Un archetipo che risiede nella coscienza e che, nonostante i traumi, le condizioni di vita e la crudele amnesia dell’essere umano nei suoi confronti, grida per ricordargli la motivazione per cui è al mondo.
Chi è il daimon?
L’etimologia della parola è di origine incerta. L’ipotesi più accreditata è che derivi dal greco δαίμων -ονος, tradotto come daimon, che significa letteralmente “distribuire destini”. In questa accezione il daimon è un’entità o energia che assegna all’essere umano il proprio destino personale.
Questo termine fu poi adottato dalla cultura romana che lo traslitterò al latino daemon –ŏnis, letteralmente “demone”, in senso figurato, “spirito” o “genio”, come personificazione di una passione che agita il cuore dell’uomo.
La lingua italiana lo traduce come “demone“: una divinità inferiore o entità intermedia tra il divino e l’umano, che influisce beneficamente o maleficamente sulle sue azioni. Nel suo significato originario, infatti, il daimon non è un essere negativo, come quello che oggi conosciamo come “demone” o “demonio” ma ha una duplice natura, benefica e malefica.
Conosce il suo successo attraverso il filosofo Platone che, nel Mito di Er raccontato in La Repubblica, ne delinea i tratti e la funzione, trasformandolo in uno degli archetipi più importanti della cultura occidentale.
Il mito di Er narra di come l’anima, prima della nascita, scelga il proprio destino: un disegno da vivere sulla terra, un’immagine primordiale da seguire. Per onorare questa scelta, le viene donato un genio tutelare che la possa guidare: il daimon. Questo compagno è partner solo dell’anima a cui è stato assegnato e ha la funzione di ricordarle il suo destino e di assicurarsi che venga realizzato.
Questo perché l’anima, una volta incarnata nel corpo, dimentica tutto ciò che è accaduto precedentemente e pensa di essere nata vuota. Grazie al daimon che le rimarrà accanto, la memoria della chiamata dell’anima non verrà dimenticata.
Qual è il suo ruolo?
Il concetto di daimon, così come raccontato nel mito di Platone, è stato ripreso da C.G. Jung e da J. Hillman che ne hanno fatto un concetto cardine della psicologia analitica.
I loro studi hanno posto l’accento su quello che, a mio parere, è l’insegnamento più importante di questo mito: riconoscere la vocazione come un dato fondamentale dell’esistenza umana e allineare la nostra vita su di essa.
In base all’accezione junghiana, il daimon è un’entità autonoma che risiede nell’inconscio, una forza intelligente inspiegabile per la mente umana.
Come una divinità interiore, egli avanza pretese e tormenta l’essere umano fino a quando questi non accetta di liberarlo.
Essendo un archetipo, non è percepibile né gestibile attraverso la sfera mentale e il controllo dell’Ego. Il daimon si manifesta nella vita quotidiana come un’esplosione creativa che induce una forte emozione, una sorta di “possessione” momentanea.
Questa esplosione può essere percepita dal mondo esterno come positiva o negativa. Nel suo lato malevolo, il daimon coincide con il significato odierno di “demone”, una forza che induce l’essere umano a commettere azioni deprecabili, sgradite o invadenti.
Nel suo aspetto benevolo il daimon è un “angelo custode”, una voce interiore che lo sostiene e protegge, aiutandolo ad affrontare situazioni difficili.
Il daimon costringe il suo protetto a buttarsi nella vita con tutte le abilità e i talenti che ha a disposizione. Per questo è “genio”, inteso sia come genialità insita in ogni persona, sia come forza che costringe l’uomo a creare conflitto tra la vita ordinaria e le sue esigenze interiori, al fine di spingerlo verso aree inesplorate.
Dal rapporto con questa entità interiore, dipenderà la possibilità per l’essere umano di esprimere la propria vocazione; qualora invece rifiutasse questo rapporto, il daimon lo tormenterà per tutta l’esistenza.
Perché è così difficile contattare il proprio daimon?
Non è cosa semplice per l’essere umano rapportarsi con il proprio daimon. Non a caso il mito narra che dopo la nascita egli dimentica il disegno che la sua anima ha scelto e così la sua vocazione, il suo genio e i suoi talenti.
Tutti vorremmo esprimere le nostre vocazioni e vorremmo che fossero riconosciute da chi ci circonda.
Alcuni sentono forte il proprio daimon che gli pulsa dentro ma non trovano il modo di esprimerlo e questo può causare un’immensa frustrazione.
Molti, invece, pensano di non avere alcuna particolare vocazione o addirittura di non averne nessuna.
Solo pochi sentono chiara la propria chiamata, riescono a instaurare un dialogo con il proprio daimon e manifestano apertamente i propri talenti, ottenendo successo e riconoscimento.
La motivazione principale per cui questo accade è che il daimon non è parte della nostra identità sociale, del nostro Ego, della mente razionale e di tutte quelle sfere del nostro sé che si occupano del vivere in società.
Lui è fuori da tutto ciò che comporta il rispetto delle regole sociali, familiari, culturali, etiche e morali; non ha nessun interesse a compiacere nessuno, perché non è di sua competenza e non comprendendo il mondo esterno succede che il mondo esterno non lo comprende.
Il daimon è un archetipo dell’inconscio e in quanto tale pura esplosione creativa, per questo crea il conflitto e viene percepito come “demone”: lungi da essere un’entità malvagia, è solo un’energia incompresa dalla realtà esterna, perché in sé difficilmente compatibile con essa.
Se devo pensare a come guadagnarmi da vivere, alla casa, al lavoro, ai figli, alle bollette, al cane, al mal di denti, alla riunione di condominio etc. come posso dare retta al mio daimon quando mi chiede di cantare, ballare, disegnare, gridare, partire per un viaggio senza meta o fare follie?
Non posso concedermi a lui altrimenti le conseguenze sarebbero troppo difficili da sostenere, quindi lo censuro, evito di ascoltare la sua chiamata e addio vocazione.
Che fare allora?
G. Jung diceva che con il tempo, lo sforzo cosciente e l’attenzione, l’osservatore può riconoscere il proprio daimon, imparare a conviverci e ricavarne dei benefici. La soluzione sarebbe quindi quella di dialogare con lui, comprendere come esprimerlo trovando un equilibrio che consenta di seguire la chiamata e la vocazione e, al tempo stesso vivere in società.
Questo processo avviene tramite un percorso di consapevolezza interiore, attraverso il quale accedere a questo archetipo, comprendere la natura della vocazione e i talenti a disposizione per manifestarla nella vita.
RIFERIMENTI
Hillmann J. (1997), Il codice dell’anima, Adelphi Edizioni, Milano
Jung C. G. (1992), Ricordi, sogni, riflessioni, Rizzoli, Milano
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